Editoriale, Franco Rosso – Piante Grasse 43:3 (2023)
La vita dell’AIAS, nei suoi 44 anni di storia, è stata piuttosto travagliata. Accanto alla progressiva crescita e maturazione degli anni d’oro, alla graduale contrazione dall’avvento di internet, agli adattamenti della forma e degli argomenti della rivista, ai mutamenti nel profilo e nelle motivazioni personali degli iscritti, la nostra vicenda è stata punteggiata anche da eventi singoli a tal punto significativi da aver lasciato nel vissuto di tanti di noi un effetto che fatica a svanire negli anni. Purtroppo non parliamo di grandi scoperte botaniche e nemmeno di fiere o premi, bensì di eventi traumatici, e l’effetto prodotto in tanti di coloro che ne furono coinvolti è stato una disaffezione verso la nostra associazione, o in forma minore un’ostilità verso una parte di essa.
Mai come in questo contesto l’espressione del Petrarca “piaga per allentar d’arco non sana” è stata più appropriata: anche a distanza di un’intera generazione, e anche nell’attuale assenza di alternative sociali ed editoriali fra le quali poter scegliere, almeno nel nostro ambito nazionale, non vi è stato il flusso di ritorno che alcuni di noi, i più ingenui (quelli come me), si sarebbero aspettati.
Mentre nell’ambito strettamente culturale si potrebbe disquisire, a seconda delle proprie inclinazioni personali, di temperamento o addirittura politiche, sul primato dell’inclusività rispetto a quello dell’inappuntabilità, o viceversa, la nostra è un’associazione di promozione sociale, e questo status giuridico è già di per sé stesso dirimente verso ogni ambiguità valoriale. Devo essere onesto e ammettere che io stesso all’inizio non comprendevo bene la ragione di questa scelta: perché essere un’associazione di promozione sociale se poi alla fine facciamo essenzialmente cultura? Curiamo una rivista e dei libri, organizziamo mostre e congressi, forniamo informazioni tecniche sui social: tutte iniziative in sé stesse culturali… dunque? La risposta me la sono data proprio ora, negli ultimi mesi: è lo spirito con il quale tutto questo viene svolto a fare la differenza. Lo spirito di unire, di includere, di dare spazio, di accogliere. E di passare oltre. Invece stiamo impiegando più tempo noi a sanare le nostre ferite e a metabolizzare il nostro rancore di quanto ne abbiano impiegato nell’ultimo secolo nazioni e popoli a porre fine ad annosi conflitti.
Per quanto uno scisma sia stato traumatico, un’azione lesiva, una persona arrogante, una frase offensiva, un’istanza mendace, l’AIAS esiste – e resiste – ancora. Se il numero di iscritti oggi è minore di quello di un tempo, sappiamo bene – tutti – che le ragioni non risiedono nei danni conseguenti a questa azione, persona o evento accaduto nel “nostro” passato. Vale anche in natura: la vera forza sta nella resilienza, nell’adattarsi, nel trasformare ogni criticità in opportunità.
Immagino che i più giovani o i più distratti (come me), ovvero coloro che sono interessati essenzialmente “a parlare delle piante succulente”, fatichino un po’ a starmi dietro e si domandino le ragioni di un editoriale così riflessivo, giusto a un passo dalla polemica.
Per rispondere, mi basta ricordare che, senza le disaffezioni dovute, in modo diretto o indiretto, ai nostri trascorsi burrascosi, ora saremmo all’incirca il doppio di quanti siamo in AIAS, e di conseguenza potremmo offrire ancora di più. A tutti.
Non vorrei che il mio fosse inteso come un invito al revisionismo, tanto meno all’amnistia per qualsivoglia colpa. Molto più semplicemente, oserei dire banalmente, il mio è un invito a guardare avanti e non indietro. Dobbiamo essere uniti, propositivi, inclusivi, soprattutto in tanti e con tanta, tantissima voglia di fare e di vivere le nostre passioni. Perché il tempo è la miglior medicina. La seconda più efficace sono le piante.